Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo (kairòs) non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? (Lc 12, 56-57). Con queste parole Gesù metteva in guardia i suoi contemporanei dal pericolo di ingannarsi a proposito del loro momento storico: non era un momento qualunque, ma il momento ultimo, quello in cui tutto è in gioco. Solo una colpevole cecità poteva impedire loro di vederci chiaramente e regolarsi di conseguenza.

 

 

 

Dal giorno della risurrezione di Gesù, ogni momento è gravido del favore di Dio per l’umanità, perché il momento storico vissuto da Gesù, prolungandosi nella chiesa, continua ad offrire agli uomini la possibilità di capire e convertirsi.

Oggi non mancano osservatori capaci di cogliere la grazia del tempo che stiamo vivendo, ma è difficile trovare una descrizione del kairòs, più lucida di quella che Papa Francesco ne ha fatto in un suo discorso alla Curia romana. La vis profetica delle sue parole continua a risuonare non solo nei suoi successivi discorsi e scelte pastorali, ma in tutti coloro che lo ascoltano e provano a incamminarsi sulla strada maestra che egli, come vera guida, indica alla Chiesa.

“…quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza. Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica, che si legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa).

L’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento, della parresia e della hypomoné. Il cambiamento, in questo caso, assumerebbe tutt’altro aspetto: da elemento di contorno, da contesto o da pretesto, da paesaggio esterno… diventerebbe sempre più umano, e anche più cristiano. Sarebbe sempre un cambiamento esterno, ma compiuto a partire dal centro stesso dell’uomo, cioè una conversione antropologica.

Noi dobbiamo avviare processi e non occupare spazi: «Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa». Da ciò siamo sollecitati a leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento «risvegli nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi»” (Francesco, Discorso alla curia romana per gli auguri di Natale, Sabato, 21 dicembre 2019).

LA STRADA MAESTRA DELLA CHIESA

Nel primo millennio la sinodalità è stato il modo di procedere abituale della chiesa intesa come popolo radunato dalla Trinità. I Padri erano convinti che Chiesa e sinodo sono sinonimi (San Giovanni Crisostomo). La prassi sinodale ha trovato la sua massima espressione nel concilio ecumenico.

Nel secondo millennio questo modo di procedere non è venuto meno, perché, quando si è trattato di formulare i dogmi della fede, i sommi pontefici hanno voluto consultare il collegio episcopale, per conoscere la fede di tutta la Chiesa.

La celebrazione del Concilio ecumenico Vaticano II, nella seconda metà del secolo scorso, è in linea con questa ininterrotta tradizione ecclesiale e Lumen Gentium, soffermandosi sull’infallibilità del sensus fidei del popolo di Dio, afferma che, in virtù dell’unzione dello Spirito santo, ricevuta nel Battesimo, la totalità dei fedeli non può sbagliarsi nel credere (cf. LG 12).

All’interno dell’attuale contesto storico, la sinodalità continua a rappresentare la strada maestra per la Chiesa, chiamata a rinnovarsi sotto l’azione dello Spirito Santo. Anzi, la consultazione sinodale proposta a tutte le Chiese particolari punta a suscitare la sinodalità come stile di vita ecclesiale e, in modo che ciascuno abbia l’opportunità di esprimersi e di essere ascoltato, siano riconosciute e apprezzate la ricchezza e varietà dei doni che lo Spirito elargisce in libertà, si possano sperimentare nuove modalità di esercitare la responsabilità missionaria, e rivedere certe modalità di governo e organizzazione delle strutture ecclesiastiche (cf. Sinodo 2021-2023, Documento preparatorio).

La prima fase del processo sinodale è la consultazione delle Chiese locali e mira a raccogliere la ricchezza delle esperienze di sinodalità vissuta nelle diverse comunità ed ascoltare la voce dello Spirito Santo che parla attraverso il popolo di Dio.

In virtù dell’unzione dello Spirito Santo, tutti i battezzati sono soggetto del sensus fidelium, che non può sbagliarsi nel credere e perciò nessuno dei battezzati dovrebbe essere escluso dalla possibilità di condividere il suo punto di vista e le sue esperienze.

Il processo sinodale non è una mera consultazione sociologica, ma è un processo di ascolto orientato al discernimento: ascolto di Dio fino a sentire con Lui il grido del popolo, ascolto del popolo fino a cogliervi la volontà di Dio.

Il discernimento comunitario poi non si improvvisa, ma richiede atteggiamenti che favoriscano un dialogo autentico: umiltà nell’ascoltare e coraggio nel parlare, disponibilità a cambiare opinione, libertà da pregiudizi e stereotipi, capacità di superare le ideologie.

Occorre anche riconoscere e superare quelle tentazioni che inibiscono la fecondità del processo sinodale, come quella di sostituirci allo Spirito santo, quella di vedere solo problemi, quella di concentrarsi sulle strutture piuttosto che sulle persone, quella di imporre le proprie idee, quella di ignorare una parte significativa del popolo di Dio.

Non si tratta di sovraccaricare le comunità di ulteriori impegni, ma di integrare il processo sinodale nella loro vita ordinaria. Il sinodo, infatti, non si aspetta solo delle risposte utili alla fase successiva, ma desidera soprattutto promuovere e sviluppare ovunque la pratica e l’esperienza della sinodalità (cf. Sinodo 2021-2023, Vademecum).

L’ESERCIZIO DEL DISCERNIMENTO

Al cuore del processo sinodale c’è il discernimento comunitario che, secondo un’espressione di Marko Rupnik, è l’arte di capire quello che lo Spirito dice alla Chiesa. In una recente conferenza alla diocesi di Como, Rupnik si è soffermato sui principii e sulle modalità del discernimento comunitario (GUARDA).

Il Padre comunica con i suoi figli in modo personale: attraverso la persona del Figlio e quella dello Spirito Santo. Gesù lo attesta in vari passaggi dei suoi cosiddetti discorsi di addio: Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere (Gv 14, 10); Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà (Gv 16,12-15).

Lo Spirito Santo parla alla Chiesa, non a individui e settori isolati: parla dove c’è attenzione alla relazione e si percepisce il bisogno del suo dono che è la vita come relazione; parla il linguaggio che si è realizzato nell’umanità di Cristo, che è la sua Pasqua, cioè offerta di sé affinché ci sia la vita di comunione; parla sempre, anche se solo le persone libere da se stessi possono ascoltarlo.

Il primo passo verso il discernimento è l’esperienza di Cristo come nostro Salvatore: sentire di essere preziosi ai suoi occhi, sperimentare di aver ricevuto da Lui il dono di un altro modo di esistere; custodire i pensieri e i sentimenti legati a quella esperienza, sentire il gusto della salvezza di Cristo. È proprio la memoria della Redenzione che ci rende liberi da noi stessi.

Il secondo passo è accogliere la mente e il sentimento di Cristo. La mentalità di Cristo è una mentalità di comunione, che non tollera divisioni, individualismi, separazioni; il sentimento di Cristo è l’umiltà che consiste nel sapere che ciò che siamo è per grazia di Dio, non per le nostre capacità.

Il discernimento comunitario non è una discussione, ma una preghiera e comprende due aspetti: il racconto e l’ascolto. Prima di tutto esponiamo la nostra situazione al Padre per mezzo di Cristo. Poi ci predisponiamo ad accogliere il Mistero che si dona a noi attraverso la Parola, la Liturgia, la storia della chiesa.

La modalità concreta prevede due condivisioni. Nella prima, la guida propone una preghiera ed espone la questione; poi ciascuno dice quello che pensa, senza richiamarsi ad altri. Nella seconda, la guida propone una sintesi della prima condivisione; poi ciascuno dice ciò che pensa della sintesi e precisamente ciò che pensa sia ispirato dallo Spirito santo e corrisponda alla mente e al sentimento di Cristo.

L’esito del discernimento sarà il pensiero sul quale soffia lo Spirito santo e verrà fuori da persone veramente libere da se stesse, disposte a rinunciare al proprio punto di vista, per abbracciare quello che lo Spirito dice alla Chiesa. Non si tratta di democrazia ma di collegialità: nella democrazia la minoranza rimane della propria idea, nella collegialità la minoranza assume come proprio punto di vista quello ispirato dallo Spirito santo. Se la comunità non arriva ad una convergenza, è opportuno prolungare il cammino. Se questo non basta, il vescovo, o la guida da lui deputata, si ritira, compie il suo discernimento e lo propone alla comunità.

La bussola del cammino

La fase diocesana della consultazione sinodale incontra la parrocchia in una fase storica in cui è chiamata a riformarsi, per continuare ad essere la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie(Giovanni Paolo II, Christifideles laici 26.). Grazie alla sua grande plasticità, essa può assumere forme adatte alle nuove esigenze dell’evangelizzazione e divenire ambito di comunione e partecipazione, orientato completamente verso la missione: comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Questo però suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi (cf. EG 28).

Un sinodo sulla sinodalità appare sempre più come quel dono e quella sfida capaci di aiutare la parrocchia a rinnovarsi, ad attivare un dinamismo che la porti vivere la comunione, a realizzare la partecipazione e ad aprirsi alla missione. All’interno di una Chiesa sinodale la parrocchia non potrà concepirsi e qualificarsi che come comunità sinodale.

Se il cammino della sinodalità è davvero quello che il Signore si aspetta dalla chiesa del terzo millennio (cf. Sinodo 2021-2023, Documento preparatorio, p. 1), allora costruire una parrocchia sinodale non è un’utopia, ma un sogno realizzabile che prende corpo passo dopo passo. Ci vuole impegno, pazienza e discernimento.

I quattro principii indicati da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium costituiscono in prezioso punto di riferimento per orientarsi nel cammino, una vera e propria bussola per che comincia il cammino della sinodalità (cf. EG 222-237).

Il tempo è superiore allo spazio. Se la parrocchia è solo o soprattutto un territorio geografico, allora prevale la preoccupazione di controllare gli spazi. Se invece è una storia da abitare, l’impegno pastorale si può focalizzare sui percorsi da attivare e sullo stile da assimilare.

L’unità prevale sul conflitto. È inevitabile che ci siamo conflitti, nella vita come nella comunità cristiana. Il problema sta nel modo in cui li affrontiamo. Eluderli traccia una cortina di incomunicabilità che falsa i rapporti interpersonali. L’alternativa è accettarli, cioè: riconoscerli, affrontarli, trasformarli in un fattore di crescita personale e comunitaria.

La realtà è più importante dell’idea. L’ideale a cui tendiamo necessita di essere incarnato in una realtà fatta di volti e di storie: negarli in nome del proprio ideale di comunità vuol dire distruggere la comunione, per quanto devote possano essere le proprie intenzioni (D. Bonhoeffer, La vita comune, Queriniana, Brescia, 1973, 46-47. ). La vita parrocchiale tocca un ampio ventaglio di persone, nella varietà delle loro situazioni di vita: praticanti abituali o pendolari, parrocchiani visibili e invisibili. La vocazione della parrocchia è di essere per tutti, perché tutti siano toccati dalla ricchezza del Vangelo.

Il tutto è superiore alla parte. La parrocchia è parte della Chiesa particolare, come questa è parte della chiesa universale. Chiudersi al tutto favorisce la tentazione di costruire comunità autoreferenziali, autosufficienti. L’attenzione al tutto porta invece ad aprirsi alla diocesi, ad accoglierne le scelte pastorali, a rinnovarsi anche a costo di mettere in discussione le proprie prassi e tradizioni.

Conclusione

Stiamo assistendo all’ennesimo miracolo dello Spirito Santo. Non è un eufemismo affermare che, imponendo il distanziamento sociale e suscitando diffidenza e paura dell’altro, la pandemia ha minato le basi dell’appartenenza ecclesiale. Eppure, ancora scossa dalle onde della tempesta pandemica, la barca di Pietro si appresta ad uscirne con la scelta antica e sempre nuova della sinodalità, incentrata sul pieno coinvolgimento di tutti i battezzati e sul valore irrinunciabile dell’ascolto reciproco. È l’ennesimo nuovo inizio, premessa di una rinnovata comunione ecclesiale e rampa d lancio di uno slancio missionario adatto all’inizio del nuovo millennio.

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