Mt 22, 15ss
Alle tre parabole con cui Gesù aveva denunciato l’incredulità dei capi, seguono altrettante dispute volte a far dire a Gesù cose compromettenti.
La prima è quella del tributo, la tassa imposta dai romani dopo l’occupazione della Palestina.
Esisteva una moneta speciale per pagare il tributo, il denaro, che recava l’immagine dell’imperatore e l’iscrizione latina: Tiberio Cesare, augusto figlio del divo Augusto, sommo sacerdote.
I farisei tengono consiglio contro Gesù per coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Quindi gli mandano i propri discepoli e gli erodiani, partigiani di Erode, le persone più indicate per riferire all’autorità romana le parole ostili a Cesare, che si sperava di far dire a Gesù.
È lecito o no pagare il tributo a Cesare?: considerate le pretese di culto dell’imperatore nei confronti dei propri sudditi, si comprende come la questione risenta degli scrupoli religiosi dei farisei.
Quale che fosse stata la risposta di Gesù, egli sarebbe passato o come un traditore del popolo o come un sovversivo.
Come altre volte, Gesù non risponde sì o no, ma con una contro-domanda: Mostratemi la moneta del tributo. Quelli gli presentano un denaro, dimostrando così di disporne per il pagamento della tassa. Gesù chiede: Di chi è l’immagine e l’iscrizione?. Quelli rispondono: Di Cesare. Gesù conclude: Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.
Gesù definisce ciò che è di Cesare: il denaro, e solo quello. Nello stesso tempo rimanda i suoi interlocutori a se stessi, invitandoli a scoprire, alla luce della doro fede, ciò che è di Dio.
Gesù non dà ricette: la sua Parola indica la direzione e mette in cammino.
Privando di ogni valenza religiosa e cultuale il pagamento del tributo, Gesù lo trasforma in un semplice atto amministrativo: il contributo che ogni cittadino dell’impero dà all’autorità per il buon funzionamento della cosa pubblica.
Nel linguaggio corrente la risposta di Gesù ha perso il suo significato originario ed è usata per giustificare la separazione tra ambito politico e ambito religioso.
Eppure offre un criterio di valutazione valido ancora oggi: lo stato non è Dio né può esigere dai suoi sudditi quello che appartiene a Dio.
Il credente ha il diritto di professare liberamente la propria fede e di fare obiezione di coscienza in nome della propria fede, su temi eticamente rilevanti.
D’altra parte la fede non deve diventare un alibi per il disimpegno civile, al contrario: rende i cittadini ancora più responsabili nel perseguimento del bene comune.
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